Quando l’autonomia ha cambiato indirizzo

Le macchine hanno imparato l’autonomia dell’esecuzione. Agli umani resta l’autonomia delle regole: scegliere i vincoli giusti e cambiarli quando servono.
Oggi la parola “autonomia” sembra abitare più nelle macchine che nelle persone. Sistemi che decidono senza supervisione costante. Procedure che si adattano ai dati. Discrezionalità programmata entro parametri chiari. È un’autonomia concreta, misurabile, che produce risultati visibili. Nel frattempo gli uffici restano pieni di permessi, approvazioni, firme in attesa. La distanza tra promessa e pratica è evidente.
La tesi è semplice. Esistono due autonomie diverse. Le macchine eccellono nell’autonomia esecutiva: compiono scelte ripetute, riducono attriti, mantengono il ritmo. Gli umani devono coltivare l’autonomia generativa: ridefinire lo scopo, cambiare le regole, scegliere vincoli migliori. La tecnologia, vista così, è positiva: libera tempo e attenzione dove l’autonomia umana serve davvero.
Il senso comune però racconta altro. Dice che “autonomia” significa fare come si vuole. Che basta “fidarsi” e togliere i controlli. Che la libertà cresce quando la struttura scompare. È un equivoco. Senza struttura, i sistemi si spezzano. Senza regole chiare, la cooperazione degrada. Molte organizzazioni lo sanno ma si fermano a metà: celebrano la parola, mantengono i corridoi stretti. Così le persone chiedono firme per spese minime. Scrivono report per confermare l’ovvio. Delegano la responsabilità verso l’alto, in cerca di un ombrello.
Negli anni, gran parte della discrezione è stata esternalizzata. Prima a professionisti incaricati di “validare” decisioni già prese. Oggi a strumenti che argomentano in pochi secondi. Cambia il mezzo, non il gesto. Si cerca conferma, non confronto. Si chiede una risposta ben formattata, non una domanda migliore. La tecnologia diventa specchio educato. Restituisce un’immagine rifinita del pensiero di partenza. Non lo sfida, se non le viene chiesto.
Cosa sta cambiando davvero? Innanzitutto la densità decisionale. Molte scelte operative sono più frequenti, più piccole, più interconnesse. Gli agenti automatici gestiscono bene questo paesaggio. Mantengono coerenza. Misurano gli effetti. Rendono tracciabile la catena “se… allora…”. La loro autonomia esecutiva non è un vizio. È un bene pubblico del lavoro: riduce sprechi, accorcia cicli, toglie peso alle ripetizioni. Quando il contesto devia, però, la partitura si inceppa. Lì serve un altro tipo di autonomia: decidere se suonare, cosa suonare, con chi suonare.
Per orientarsi è utile una mappa semplice. Da un lato c’è il flusso: tutto ciò che deve andare, altrimenti l’organizzazione si ferma. Dall’altro c’è lo stato: tutto ciò che deve evolvere, altrimenti l’organizzazione invecchia. Nel flusso l’autonomia necessaria è operativa. Si sceglie come fare, entro guardrail. Nello stato l’autonomia necessaria è generativa. Si sceglie cosa ha senso fare, quali vincoli cambiare, quali standard promuovere, quali pratiche deprecare. Gli strumenti aiutano il flusso. Le persone custodiscono lo stato.
Qui emerge una regola più semplice di quanto sembri: autonomia = disciplina scelta. Non è assenza di vincoli. È la facoltà di sceglierli in anticipo, dichiararli, rispettarli, e aggiornarli in modo visibile. È un patto: decidi entro confini chiari; quando devii, lasci traccia; a intervalli regolari, rivedi la regola. La libertà non è il vuoto intorno. È l’accordo tra parti che si fidano perché vedono.
Per rendere praticabile questa idea servono alcuni ingredienti concreti. Il primo è il diritto decisionale esplicito. Non basta dire “siate autonomi”. Occorre scrivere chi decide cosa, con quali input minimi, entro quali soglie, con quale verifica. Il secondo è la traccia leggibile. Ogni decisione autonoma produce una nota breve: problema, opzioni, principio scelto, data di controllo. Non per punire. Per ricordare. Il terzo è il ritmo di manutenzione. Le buone regole invecchiano. Quelle migliori hanno un punto di revisione scritto accanto.
Qualcuno obietta che tutto questo costa. È vero. Selezionare bene chi decide costa. Formare al confronto costa. Rendere visibili le scelte costa. Ma costa anche la non-autonomia. Si paga in tempi morti, in motivazioni basse, in intelligenze spente. Si paga soprattutto in opportunità mai viste, perché nessuno aveva il permesso di nominarle. Il prezzo della disciplina scelta è un investimento. Il costo del controllo diffuso è una tassa continua.
Un’altra obiezione è il rischio di abuso. “E se qualcuno approfitta della libertà?” La risposta non è tornare alla catena delle firme. È rendere visibili gli abusi. Le soglie esistono per questo: sotto un certo livello, decide chi è più vicino al lavoro; sopra, si sale di grado. Quando una decisione sbaglia, la traccia mostra dove correggere: nella regola, nella soglia, nella persona, nella formazione. Senza traccia, la colpa diventa caratteriale, quindi insolubile. Con la traccia, diventa progettuale, quindi migliorabile.
C’è poi il tema della responsabilità. Per ora resta pienamente umana. È giusto. La responsabilità è un atto sociale, non solo tecnico. I sistemi possono aiutare a documentarla. Possono distribuire i “perché” in modo leggibile. Non possono sostituire il gesto di rispondere agli altri di una scelta. Qui sta il confine più nobile dell’autonomia umana. Non è l’eroismo. È la disponibilità a farsi vedere mentre si decide e si cambia idea con dignità.
La tecnologia, in questo quadro, non è un antagonista. È un alleato quando fa quello che sa fare meglio: prendere bene decisioni ripetute e renderne visibili gli effetti. È positiva perché libera attenzione per il lavoro che non si lascia ridurre a schema. È positiva quando accetta regole semplici: fermarsi su segnale, chiedere chiarimento su deviazione, aggiornare lo standard quando la realtà lo richiede. È positiva soprattutto quando adotta un lessico umano: differenzia un’anomalia statistica da una deviazione reale; segnala analogie senza fingere identità.
Resta da chiarire cosa significhi, oggi, “essere autonomi” come persone. Non è “fare tutto da soli”. È diventare piattaforme leggibili. Dichiarare il perimetro: cosa si offre, con quale qualità minima, in che tempi, con quali soglie di allarme. Rendere visibili i criteri: perché si è scelto A e non B. Esporre un changelog sobrio delle decisioni, come fanno i sistemi quando indicano la versione. Questo non riduce la creatività. La incanala. La rende utile agli altri.
Guardando le organizzazioni, la biforcazione è chiara. Ci sono macchine d’esecuzione, che competono su efficienza e prevedibilità. Lì gli strumenti automatici sono la spina dorsale. Le persone supervisionano, intervengono nelle eccezioni, curano la qualità. È una scelta legittima. Funziona in contesti stabili e mercati maturi. Ci sono poi organismi in evoluzione, che competono su adattamento e creazione di nuovo valore. Lì servono persone capaci di rimettere mano alle regole. Servono spazi lenti dove nominare i problemi senza travestirli da progetti. Servono cicli brevi per portare a standard ciò che è nato come esperimento.
La cosa peggiore è confondere i due modelli. Chiedere esplorazione a una macchina d’esecuzione produce caos. Pretendere routine da un organismo in evoluzione produce cinismo. La vera intelligenza organizzativa sta nel separare e collegare. Tenere il flusso snello, misurabile, automatizzabile. Tenere lo stato deliberato, visibile, discutibile. Costruire ponti: promuovere a regola ciò che ha funzionato; deprecare ciò che non serve più; spiegare l’uno e l’altro in una lingua che tutti capiscono.
Alla fine, il nodo è culturale. Si tratta di passare dalla retorica della libertà alla pratica dei confini. Non confini come muri, ma come argini elastici. Un territorio idraulico ben progettato non prova a fermare l’acqua. Decide dove può allargarsi senza fare danni. Così, nei team, l’autonomia non elimina le regole. Ne costruisce di migliori. Più leggere, più chiare, più facili da rivedere. È un lavoro più modesto del mito. Ma produce più realtà del mito.
Vale anche al livello individuale. Autonomia decisionale, operativa, economica, identitaria: non sono slogan. Sono strade diverse. Ognuna chiede una strategia distinta. La decisionale chiede coraggio e linguaggio. L’operativa chiede metodo e strumenti. L’economica chiede portafogli di entrate e prudenza. L’identitaria chiede distacco dai titoli e solidità nei criteri. Mescolare tutto sotto la stessa parola crea equivoci. Separare aiuta a scegliere.
In questa prospettiva, la tecnologia resta una buona notizia. Non perché sostituisce. Perché amplifica. A patto di non chiederle ciò che non ha: il punto di vista. Un sistema può ottimizzare. Può dedurre. Può suggerire analogie. Non può dire che la domanda è sbagliata. Non può dichiarare che un processo va eliminato, non raffinato. Non può scegliere un costo oggi per un vantaggio domani contro l’umore del trimestre. Queste sono scelte di cornice. Sono scelte da adulti tra adulti.
Il futuro, allora, dipende da una pratica umile. Saper progettare regole che si vedono. Saperle cambiare prima che invecchino. Saper distinguere tra una deviazione che insegna e una che confonde. Saper usare la tecnologia come un repertorio di buone abitudini: pronta, sobria, spiegabile. Non c’è gloria in questo. C’è maturità. E la maturità, in sistemi complessi, è spesso l’unica forma di innovazione che dura.
Si torna così all’inizio. L’autonomia ha cambiato indirizzo? In parte sì. Le macchine l’hanno accolta nel regno dell’esecuzione. Meglio per tutti. Ma la porta principale resta nostra. È la porta delle regole. È la porta dei “fino a qui” scelti con criterio. È la porta della responsabilità che non si delega, ma si condivide con trasparenza. Da quella porta si entra ogni mattina. E si esce ogni sera con la stessa domanda sul tavolo: abbiamo usato bene la libertà che abbiamo chiesto?
Domani i sistemi saranno ancora più rapidi, più precisi, più tracciabili. Sapremo ancora distinguere tra una conferma ben scritta e un’idea che merita di cambiare cornice? Avremo la pazienza di mantenere regole leggere e la fermezza di farle rispettare? Saremo disposti a rinunciare a un pezzo di velocità per guadagnare una quota di senso? Sono domande pratiche, non filosofiche. E meritano risposte visibili, non dichiarazioni.
La buona notizia è che le risposte non richiedono un’epopea. Richiedono un alfabeto breve: chiarezza sui diritti decisionali, tracce leggibili, revisioni cadenzate, strumenti che rispettano i confini, persone che rispettano gli strumenti. In quel poco c’è quasi tutto. Il resto è lavoro quotidiano. È la parte migliore della modernità: scegliere di partecipare, non di assistere.
— Lorenzo Ait